Le "non-vittime" di Almasri
09 Febbraio 2025
di Gregorio Valducci, dottorando di ricerca nell’Università di Milano
In queste settimane si è molto discusso del caso di Njeem Osama Elmasry – noto come Almasri –, capo della polizia giudiziaria libica, su cui pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale. L’accusa è di crimini di guerra e contro l’umanità – compresi omicidio, tortura, stupro, persecuzione e detenzione inumana – commessi dal febbraio del 2015 in poi nella prigione di Mitiga, che si trova al centro di diverse indagini indipendenti e di un recente rapporto dell’ONU come luogo di sistematiche violazioni dei diritti umani. Almasri, oltre a essere responsabile della sicurezza di quella prigione, è un funzionario di primo piano della nota milizia di Tripoli denominata RADA, creata per combattere il crimine organizzato e accusata di gravi violenze nella gestione dei flussi migratori.
In questa sede non discuterò su quanto è già ben noto della vicenda: l’arresto di Almasri e il successivo rilascio e rientro in Libia; l’indagine, a seguito di quanto accaduto, nei confronti della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni e di altri esponenti del Governo. Al di là della questione giudiziaria, risulta abbastanza evidente che la liberazione di Almasri sia dipesa da una decisione prettamente politica, dettata da interessi strategici, economici e diplomatici.
Credo, invece, sia opportuno riflettere sulle ragioni per cui una tale decisione politica possa finire per risultare socialmente accettabile, da un punto di vista morale prima ancora che politico-diplomatico. A tal fine, è utile osservare e leggere il caso Almasri attraverso il concetto di “vittima ideale”, per la prima volta formulato dal criminologo Nils Christie nel 1986.
Vittima ideale è quella persona – o categoria di individui – a cui, nel momento in cui subisce un reato, si può prontamente e legittimamente attribuire lo status di “vittima”. La vittima ideale è un individuo debole, vulnerabile, che non può essere accusato o biasimato di nulla; e, tuttavia, si tratta allo stesso tempo di una figura dotata di una certa forza, intesa non tanto in senso fisico, quanto morale e politico. Infatti, la comunità, cioè il resto dei consociati, è sempre pronta ad ascoltare la voce della vittima ideale, a far circolare il suo discorso e la sua richiesta di giustizia, garantendole in questo modo legittimazione e forza autoritativa. Questa disponibilità deriva dal fatto che la sua parola risuona familiare: la vittima ideale è infatti parte dell’ingroup, una persona simile a noi, tanto che “mi sarei potuto trovare io al suo posto”. L’attribuzione dello status di vittima ideale, dunque, non è per tutti: viene riservato il più delle volte solo a certe categorie di persone escludendone altre, le quali sono anch’esse vittime reali in carne e ossa, ma che non possono far sentire la propria voce. Ci sono storie di vittimizzazione a cui non siamo disposti a prestare orecchio: le storie del diverso, del marginale, dell’eccedente. Ascoltare le loro voci significherebbe dover prendere atto e farsi carico della violenza che ancora permea la comunità e che viene esercitata nei confronti di gruppi vulnerabili. Quando gli individui non rientrano nel ristretto perimetro dell’idealità della vittima non possono ambire a questo status, la violenza risulta accettata e accettabile e l’impunità dell’effettivo carnefice normalizzata.
È quanto avvenuto nella vicenda Almasri, il quale, nonostante i crimini di cui è imputato, è potuto tornare in Libia impunito: non siamo infatti disposti ad accogliere la voce delle sue vittime reali, i migranti passati dalla prigione libica, che chiaramente non possono ambire allo status di vittima ideale (e che addirittura finiscono con l’essere genericamente additati come carnefici, potenziali o reali).
Sicuramente è richiesto un lavoro della (e sulla) comunità per accogliere nuove narrazioni che contengano al loro interno anche il racconto e le storie di quelle vittime non ideali: si tratta di un lavoro politico, che consiste nel guardare e riconoscere quella violenza che per il momento è socialmente tollerata. Per fare ciò è necessario accogliere l’Altro e acconsentire ad ascoltare la sua voce, tentando così di decostruire l’idealità della vittima e di imporre una discorsività più libera e democratica. Se si sarà in grado di fare ciò, forse, un caso come quello di Almasri non si ripeterà in futuro.