COMMENTO & OPINIONE

Rileggere il caso De Maria alla luce del prisma fiduciario

18 Maggio 2025



di Gregorio Valducci, dottorando di ricerca nell’Università di Milano

Molto si sta discutendo del caso di Emanuele De Maria, 35enne napoletano detenuto nel carcere di Bollate per un femminicidio commesso nel 2016: da due anni gli era stata accordata la possibilità di accedere a un lavoro esterno al carcere. Venerdì 9 maggio De Maria non è rientrato in istituto dopo il turno lavorativo: nelle 48 ore successive, ha accoltellato un collega dell’Hotel Berna e commesso un altro femminicidio (la vittima è Chamila Wijesuriyauna, anche lei collega), e infine si è tolto la vita. 

Le prime reazioni sui media e presso l’opinione pubblica sono state di sconcerto e paura, e si sono concretizzate in una richiesta di maggiore sicurezza. Ciò conduce alla ricerca di un capro espiatorio, che in un caso come questo sembra presentarsi facilmente: coloro che hanno concesso a De Maria il beneficio del lavoro esterno senza comprendere che era ancora socialmente pericoloso. Si insiste così sulla “certezza della pena”, che altro non è se non certezza del carcere fino all’ultimo giorno: sarebbe dunque necessario, in accordo con il neopunitivismo che attraversa la nostra società, negare benefici e pene alternative. La richiesta è avanzata anche “in nome delle vittime”, per onorare la loro memoria ed evitare che casi analoghi si verifichino in futuro. Trattandosi di questioni che hanno un fondamento profondo, anche se spesso banalizzate dai media o ridotte a slogan dalla politica, è opportuno condurre un’attenta riflessione, osservando questo caso attraverso la lente della fiducia, così come espressa da Tommaso Greco ne “La legge della fiducia”. 

Un caso come questo può infatti far nascere un sentimento di sfiducia (nei confronti dei detenuti e del sistema garantista) che, se assecondato, potrebbe condurre ad ulteriori restrizioni all’interno del carcere e ad un inasprimento del momento punitivo del diritto penale. A questa sfiducia è necessario rispondere facendo emergere quella dimensione della fiducia e dei legami fiduciari che già (e dunque non da una prospettiva prescrittiva e “buonista”) informano il sistema giuridico e che si dimostrano generalmente efficaci. Il caso De Maria, in cui l’aspettativa fiduciaria è stata delusa, non può portarci a negare questa dimensione essenziale: anzi, proprio il fatto che la fiducia possa essere disattesa testimonia che il sistema si basa sull’aspettativa di relazioni interpersonali orizzontali. E l’affidamento – nei confronti degli altri consociati, del sistema giuridico e del suo funzionamento – ha nella maggior parte dei casi un esito positivo, pur passando generalmente sottotraccia: è infatti la violazione del patto di fiducia a suscitare scalpore. 

Per questo può essere utile partire dai dati reali: questi ci dicono che in generale torna a delinquere il 69% di chi sconta la pena tutta e solo in carcere; si abbassa invece al 17% il tasso di recidiva quando parte della pena viene scontata in misura alternativa al carcere, mentre addirittura solo il 5% di chi lavora all’esterno torna a delinquere. E, di particolare interesse per il caso in questione, in cinque anni solo l’1,2% di chi lavora all’esterno del carcere ha commesso un reato durante il beneficio, vedendoselo per questa ragione revocare. Si tratta di numeri decisamente incoraggianti, che ci dicono che il lavoro esterno al carcere funziona proprio sul fronte del reinserimento sociale e dell’abbattimento della recidiva. 

Questa riflessione si lega anche alla questione delle vittime a cui si faceva riferimento sopra. I dati non possono ovviamente “guarire” il dolore delle vittime e dei loro cari: il rispetto per il vissuto individuale è fondamentale, ma è anche importante comprendere che tale rispetto, insieme al bisogno di giustizia e alla richiesta di sicurezza, non può trovare risposta in una stretta punitiva e vendicativa; al contrario, questa richiesta di giustizia può essere raggiunta attraverso un allentamento della risposta carceraria e grazie ad un lavoro della comunità e del territorio che devono accogliere le parti coinvolte in un fatto di reato, secondo una prospettiva basata sulla forza dei legami fiduciari. Glauco Giostra ha efficacemente illustrato questi concetti in un articolo per Avvenire: se si vuole a tutti gli effetti agire “in nome delle vittime”, distaccandosi però da una retorica strumentalizzante, è necessario riconoscere che il carcere riproduce delinquenza, e che l’implementazione di misure alternative e benefici è fondamentale. 

In conclusione, nonostante la presenza dell’elemento fiduciario nel sistema giuridico, va tuttavia riconosciuta la tendenza del sistema stesso a mettere in ombra questo aspetto per puntare tutto sul momento “negativo” della punizione, inteso come l’unico in grado di far fronte a una crisi e di assecondare i bisogni delle vittime. In quest’ottica, il caso De Maria è emblematico: c’è il rischio che esso possa condurre a un allargamento dello spettro carcerario a discapito delle pene alternative e dei benefici penitenziari. Ciò può avvenire tanto più facilmente quanto più si concepisce il diritto penale in un senso prettamente “leviatanico”, negativo, sanzionatorio: in questa maniera, la risposta violenta appare come la sola concepibile ed efficace. Per tale ragione è doveroso, proprio ora, insistere sulla dimensione della fiducia che permea l’intero sistema, e anzi valorizzarla e implementarla, muovendosi dunque, per il bene di tuttɘ, anche delle vittime, nella direzione di un allentamento della stretta punitiva e carcerocentrica.