COMMENTO & OPINIONE

Polizia penitenziaria in crisi

14 Febbraio 2025



Roberto Cornelli, Professore di Criminologia nell'Università di Milano

Da qualche anno svolgo ricerche in carcere, ma, a differenza di altri miei colleghi, studio la polizia penitenziaria più che le persone ristrette. A chi mi chiede perché, rispondo che se mi occupassi di ospedali e fossi preoccupato di capire come vengono curati i pazienti, non potrei certo tralasciare di osservare i medici, gli infermieri e il personale di assistenza, a partire dall’immagine che hanno del proprio lavoro e di come lo esercitano quotidianamente. Ecco, penso sia necessario, per chiunque voglia occuparsi di carcere, capire qualcosa di più di quegli operatori che sono presenti in ogni angolo del sistema penitenziario e da cui dipende principalmente la qualità del servizio reso ai detenuti e all’intera società. Tanto più che non sono operatori come gli altri: a loro è delegata la tutela dell’ordine e della sicurezza negli istituti, anche con la forza se necessario. Occuparsi di loro significa anche occuparsi di come l’ordine di un istituto viene mantenuto, con quali limiti democratici e a quale prezzo.

E, allora, iniziamo a dire che oggi in Italia gli agenti di polizia penitenziaria stanno vivendo una fase che potremmo definire di crisi della propria identità professionale. La sovrapposizione di due compiti in apparenza divergenti – quello di sorveglianza, su cui più spesso si costruisce il senso di appartenenza al corpo di polizia penitenziaria, e quello rieducativo-trattamentale – viene vissuta con fatica. È quello che definiamo conflitto di ruolo. Molti riescono ancora a far convergere questi due compiti, ma le narrative penitenziarie che descrivono il carcere come uno scenario di guerra in cui l’ordine va garantito attraverso una lotta senza quartiere contro il nemico, si stanno diffondendo rapidamente, rafforzando gli orientamenti di tipo più custodiale o apertamente punitivo.

Complica le cose il fatto che gli agenti spesso si sentano ignorati, lasciati soli ad affrontare le numerose criticità che emergono nell’espletamento dei loro compiti, e non sentano riconosciuto in alcun modo il loro impegno, con ovvie conseguenze nei termini di un crescente avvilimento e di una profonda insoddisfazione. Questa distanza dai vertici comporta un senso di isolamento che incide negativamente sulla percezione di riconoscimento del proprio ruolo: sentono di essere giudicati male qualsiasi cosa facciano e dichiarano che se anche dovessero fare un buon lavoro nessuno se ne accorgerebbe. La distanza si fa sentire anche in termini di chiarezza delle regole e dei compiti, comportando l’insorgere di un’ambiguità di ruolo: non si sa quale regola o procedura seguire per non sbagliare e quando si verifica qualche problema non si sa chi debba occuparsene o a chi rivolgersi. Proprio il senso di delegittimazione istituzionale, oltre all’orientamento punitivo e alla qualità delle relazioni, costituisce un tema decisivo per spiegare la variabilità nella propensione all’uso della forza da parte degli agenti di polizia penitenziaria.

Se questa è la situazione, perlomeno per come viene da loro percepita e descritta, il rischio che prenda il sopravvento una cultura professionale che propone come via d’uscita il rafforzamento di uno spirito di corpo declinato in termini militari e difensivi è molto alto. Per la verità, è già qualcosa di più concreto di un semplice rischio, a giudicare dall’insistenza con cui vengono proposte – nei video promozionali, nei calendari, nelle fiere di settore, nei discorsi politici e talvolta anche negli appuntamenti istituzionali – rappresentazioni della polizia penitenziaria nei termini di un’organizzazione paramilitare dedita esclusivamente all’uso delle armi e alla neutralizzazione dell’avversario. Una narrazione che stride con il lavoro quotidiano degli agenti, caratterizzato dall’assenza di armi e dall’attivazione di canali comunicativi efficaci con i detenuti.

Questa immagine della polizia penitenziaria rispecchia un immaginario penale molto lontano dal dettato costituzionale ma molto coerente con un orientamento politico-criminale neo-punitivo e carcero-centrico, refrattario a ogni istanza di umanizzazione e di riconoscimento dei diritti delle persone ristrette e proteso a soddisfare le aspettative d’impunità del personale. Al punto da arrivare a considerare, per citare solo le questioni attuali più rilevanti, il reato di tortura un intralcio, il diritto all’affettività un cedimento, la resistenza passiva un reato, lo scudo penale una necessità.

“Chi si ferma ad osservare la superficie delle cose troverà strano che tra i fattori del delitto venghi annoverata la sua repressione; eppure alcune sue modalità contribuiscono realmente a generare i reati e ad educare e perfezionare i delinquenti”. Sono le parole di Napoleone Colajanni, criminologo e politico, tratte dalla sua monumentale opera di Sociologia criminale del 1889. Già 130 anni fa si dava conto di una relazione stretta tra la recidiva e le modalità di esecuzione della pena: le condizioni della detenzione possono finire per “alimentare l’odio del condannato per la società”, facendo del carcere “la vera scuola normale del delitto”.

Bisognerebbe ripartire da questa lezione fondamentale sugli effetti criminogeni di una detenzione concepita in termini repressivi e umilianti per recuperare il senso profondo del proprio lavoro in ambito penitenziario, che non è punire (la punizione è già il fatto di trovarsi in carcere) ma dare opportunità, incessantemente e ostinatamente, per immaginare altrimenti la propria vita. 

*Il contributo è stato pubblicato su PQM-Il Rifomista del 14 febbraio 2025 con il titolo "Polizia penitenziaria, il difficile equilibrio tra sicurezza e crisi di ruolo"

**Le ricerche sulla polizia penitenziaria citate in questo contributo sono disponibili e liberamente scaricabili alla pagina pubblicazioni