I limiti dello strumento penale nel contrasto al femminicidio
20 Marzo 2025
di Chiara Chisari, assegnista di ricerca presso l’Università di Bologna
Il 7 marzo scorso, il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per introdurre nel Codice penale il reato di femminicidio, qualificato come un delitto commesso da “chiunque cagiona la morte di una donna quando il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità”. Stando al comunicato stampa del Consiglio dei ministri, l’intervento si inserisce nel quadro di una strategia utile a “rispondere alle esigenze di tutela contro il fenomeno di drammatica attualità delle condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne”.
Tra le prime reazioni al disegno di legge, è interessante richiamare la posizione di chi ha rilevato il valore culturale del riconoscimento normativo della specificità della violenza di genere. In effetti, per la prima volta il legislatore sancirebbe in modo inequivocabile che il femminicidio costituisce una realtà a sé stante, ammettendo che le donne vengono uccise proprio in quanto tali da soggetti che rifiutano la loro libertà e autodeterminazione. Certo, l'intervento pone non poche problematiche da un punto di vista tecnico giuridico ed è possibile che risponda esclusivamente a logiche di propaganda politica. Tuttavia, esso rappresenta un passaggio significativo in un contesto in cui la violenza di genere viene spesso relegata alla sfera privata e dove la parola femminicidio viene ancora bollata come inutile, superflua o, addirittura, impronunciabile. Infatti, la scelta di nominare il femminicidio inserisce il fenomeno entro una “cornice di riconoscibilità” che consente di comprenderlo e affrontarlo nelle sue peculiarità.
Se dunque l’iniziativa governativa ha il pregio di marcare la specificità dell’omicidio di una donna in quanto donna, qualche dubbio sorge in relazione all’esasperazione del ricorso allo strumento penale per “rispondere alle esigenze di tutela contro … condotte e manifestazioni di prevaricazione e violenza commesse nei confronti delle donne”. Tanto la letteratura specialistica quanto i movimenti femministi e transfemministi che si battono per l'uguaglianza di genere mettono in evidenza come il femminicidio non sia che la manifestazione esplicita di relazioni di potere altamente squilibrate, rafforzate da una cultura maschilista e patriarcale che molto spesso porta chi le vive a non opporvi alcuna resistenza. In conseguenza, gli interventi di contrasto e prevenzione della violenza di genere non dovrebbero limitarsi alla punizione della violenza subita dalla vittima ma dovrebbero incidere in ottica trasformativa sugli elementi strutturali e culturali che la consentono e la legittimano. Segue questa logica, per esempio, la proposta di promuovere l’educazione sessuo-affettiva nelle scuole italiane, proposta che, come è noto, non è mai stata accolta nella definizione delle linee di indirizzo per i curricula di tutti i gradi scolastici.
Che la repressione sia indicata come unica soluzione alla violenza e alle discriminazioni di genere non dovrebbe sorprendere. Nel suo libro Governing Through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear (2007), Jonathan Simon sottolinea che negli Stati Uniti il crimine è diventato il principale strumento attraverso cui il governo esercita il potere e disciplina la società. Altr3 studios3 hanno svolto considerazioni simili rispetto al contesto europeo e italiano, evidenziando che la criminalizzazione, accompagnata da interventi di tipo amministrativo-punitivo, si è ormai affermata come meccanismo privilegiato per sedare e risolvere le tensioni sociali (per es., v. qui). In tutto l’Occidente si sta dunque diffondendo una “cultura del controllo” che decontestualizza la questione criminale e favorisce politiche pubbliche volte a immunizzare dal rischio di vittimizzazione attraverso la punizione; e anche la violenza di genere rischia di essere assoggettata a queste dinamiche. La possibile introduzione del reato di femminicidio e le politiche di genere promosse in Italia negli ultimi decenni dovrebbero essere lette proprio lungo queste linee interpretative: l’idea sembra essere che la tutela della donna passi necessariamente attraverso il protagonismo e l’irrigidimento dell’apparato penale.
Questa impostazione, definita come “femminismo punitivo”, offre evidenti vantaggi in un’ottica di legittimazione politica: l’intervento penale genera un senso di rassicurazione collettiva, ponendosi come espressione dell’autorità statuale e come strumento di pronto intervento di fronte alle aspettative di protezione dell3 cittadin3. Tuttavia, essa produce effetti limitati nei termini di una reale prevenzione del fenomeno, oltre a celare il rischio di un arretramento delle conquiste in tema di parità di genere. Ciò per diversi motivi, che qui possiamo solo tratteggiare.
Innanzitutto, l’investimento nella risorsa penale implica una lettura orizzontale della realtà sociale, dove la violenza di genere non è più un fenomeno strutturale e culturale che vede contrapposti oppress3 e oppressor3, ma si risolve in atti volti a ledere l’integrità (principalmente fisica) di una vittima. Il diritto penale tende quindi a trascurare i temi dell’oppressione e dello sfruttamento che sono alla base dell’assetto verticistico delle società maschiliste e patriarcali, portando al centro l’individualità di chi agisce e subisce la violenza; così facendo, restituisce l’idea che la violenza di genere abbia a che fare con un’azione singola e che non sia, al contrario, un’esperienza condivisa dalla collettività. Parallelamente, il focus sulla punizione dei rei promuove una narrazione in cui la donna è concepita esclusivamente in funzione del suo aggressore e dunque una visione stereotipata delle donne come vittime bisognose di protezione e prive di capacità di autodeterminazione.
Da un altro punto di vista, l’attenzione riservata dal diritto penale alla dimensione diretta della violenza di genere porta a trascurare la necessità di interventi culturali, educativi, sociali ed economici per contrastarla, che non perdano di vista il carattere intersezionale della discriminazione e le sue manifestazioni multiple e che riguardino tutta la società, non solo carnefici e vittime. In altre parole, l’approccio repressivo pone in secondo piano il contesto da cui la violenza scaturisce e in cui si esplica, con possibili implicazioni nei termini di ridotta multidimensionalità e inclusività delle strategie volte a promuovere l’uguaglianza di genere.
In conclusione, non ci resta che sperare che alla presa d’atto istituzionale circa le specificità dell’omicidio delle donne in quanto donne segua il riconoscimento dei limiti del diritto penale come strumento di contrasto della violenza di genere e dunque la promozione di iniziative che pongano al centro non tanto la punizione dei rei e la vulnerabilità della vittima, quanto il benessere delle donne e la costruzione di società strutturalmente e culturalmente egualitarie.
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I contenuti di questo contributo sono stati discussi dall'autrice anche nel corso di un'intervista a Radio Popolare (trasmissione Presto Presto - Interviste e analisi, puntata del 24/3/2025). Per ascoltare l'intervista, clicca qui (minuto 29:38).