Misure di prevenzione: uno (pseudo)efficientismo a caro prezzo
18 Ottobre 2025
di Edoardo Zuffada, assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano
Da qualche giorno si è tornato a parlare dell’attivismo della Procura della Repubblica di Milano, la quale, ormai da qualche anno a questa parte, ha individuato nella misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria (art. 34 cod. antimafia) lo strumento privilegiato attraverso cui contrastare il fenomeno dello sfruttamento della manodopera nel complesso quadro delle catene di fornitura cui solitamente ricorrono le grandi realtà imprenditoriali (si è dato conto dell’avvio di tale trend applicativo in E. Zuffada, Homo œconomicus periculosus. Le misure di prevenzione come strumento di contrasto della criminalità economica. Uno studio della prassi milanese, Milano, 2022).
L’ultimo caso – ultimo, è lecito supporre, solo in ordine di tempo – che è balzato agli onori delle cronache riguarda Tod’s, noto marchio italiano del settore della moda, al quale il pubblico ministero milanese ha contestato, secondo quello che è ormai uno schema accusatorio consolidato presso il foro meneghino, di aver agevolato “colposamente” la commissione del reato di caporalato da parte di alcune cooperative della cui manodopera si serviva abitualmente, così garantendosi significativi risparmi di spesa.
Al di là delle specificità del caso Tod’s – la richiesta di misura è stata rigettata, tanto in primo quanto in secondo grado, per incompetenza territoriale ed è al momento pendente ricorso per cassazione – non si può ignorare quella che, quantomeno presso il Tribunale di Milano, sembra ormai essere una tendenza irresistibile, vale a dire l’impiego delle misure di prevenzione patrimoniali – e, in particolare, dell’amministrazione giudiziaria – come mezzo di controllo della legalità d’impresa.
A ben vedere, infatti, la vaghezza del concetto di agevolazione (colposa, come per vero poco convincentemente sostenuto dal giudice milanese, o dolosa che sia), i bassissimi standard di prova che legittimano l’applicazione della misura (bastano, infatti, «sufficienti indizi»), l’indiscutibile collocazione della misura in un’area di rilevanza penale (le condotte agevolative sono tutte indefettibilmente rivolte a supporto di comportamenti penalmente rilevanti), l’applicabilità dell’amministrazione giudiziaria inaudita altera parte (vale a dire senza contraddittorio e, dunque, senza possibilità di difesa da parte dell’ente), unitamente ai rilevantissimi poteri attribuiti al giudice della prevenzione nella concreta configurazione della misura (tra il quali spiccano la rimozione obbligatoria di tutto il management e la possibilità, riconosciuta in via pretoria, di imporre modelli di organizzazione e gestione), consentono all’autorità giudiziaria di intervenire in maniera piuttosto disinvolta e incisiva nella vita e nelle scelte strategiche dell’impresa, senza l’onerosa necessità di provare la commissione di un illecito da parte dell’ente medesimo (il tema è stato approfondito in E. Zuffada, Il mosaico incompiuto. Le sanzioni in ambito penale tra scelte legislative e applicazioni giurisprudenziali, Torino, 2025, p. 416 ss.).
Se, fino a qualche tempo fa, sembrava prevalere un atteggiamento cautamente ottimista da parte dei commentatori, che valorizzavano soprattutto la funzione di “bonifica” dell’ente “sano” coinvolto, quasi suo malgrado, in attività penalmente illecite, sembra oggi farsi largo sempre più la consapevolezza che il crescente impiego delle misure di prevenzione cosiddette “miti” – tanto quelle giurisdizionali, quanto quelle amministrative – sta producendo effetti perversi nell’ambito del controllo penale delle attività economiche, il quale appare sempre più imprevedibile e, per certi versi, randomico. È tutt’altro che chiaro, infatti, dove finisca l’ambito di intervento del sistema della responsabilità da reato degli enti così come disciplinato dal d.lgs. n. 231/2001 e dove, invece, cominci la zona di competenza di tutto quell’insieme di misure che – ostinatamente – si continua a etichettare come ante delictum (benché di autenticamente ante delictum sia rimasto ormai ben poco nel vigente quadro normativo!).
Non è però solo la prevenzione patrimoniale – nella sua duplice declinazione di confisca (su cui tanto si è scritto) e commissariamento dell’ente – a destare preoccupazione.
Sebbene tenda a passare spesso in secondo piano – vuoi per la tipologia dei destinatari dei provvedimenti (trattasi non di rado di autori seriali di reati predatori o legati al mondo del traffico degli stupefacenti), vuoi per l’elevato allarme sociale suscitato da alcuni fenomeni che, di volta in volta, s’intende colpire (da ultimo, i reati legati alla violenza di genere e/o alla violenza domestica) – anche la prevenzione personale presenta plurimi profili di criticità. Tra questi: fattispecie di pericolosità ritagliate su comportamenti penalmente rilevanti; bassi, se non addirittura bassissimi, standard probatori di accertamento delle condotte del proposto; scarsa affidabilità della prognosi di pericolosità, come peraltro ormai da tempo segnalato dai commentatori; pervasività e afflittività dei contenuti di alcune misure (come, ad es., nel caso della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza). Se a tutto questo si aggiunge il fatto che le scelte sul se, sul chi e sul come colpire con una misura di prevenzione personale sono rimesse quasi totalmente alla discrezionalità dell’autorità giudiziaria, la quale, sia pure con qualche limite posto in via interpretativa, può ancora oggi in larga misura prescindere dalle risultanze dei procedimenti penali svolti (o ancora in corso) nei confronti del proposto, è evidente come, di nuovo, l’imprevedibilità e la discrezionalità rischino di rasentare l’arbitrarietà (anche questi profili sono stati analizzati in E. Zuffada, Il mosaico incompiuto, cit., p. 244 ss.).
Si è sempre detto che le misure di prevenzione si collocano in un cono d’ombra della legalità, e ciò anche in ragione della loro natura ancipite, sempre a metà strada tra il diritto penale e il diritto amministrativo di polizia. Questa considerazione, senz’altro corretta, ha però spesso tradito un’autoindulgenza di fondo, quasi che, trattandosi appunto di strumenti ibridi – non penali, ma nemmeno soltanto amministrativi – proprio in quel cono d’ombra dovessero rimanere, per continuare a svolgere il loro (sporco) lavoro.
Ebbene, le recenti tendenze applicative dell’amministrazione giudiziaria dimostrano, ove ve ne fosse ancora bisogno, che le misure di prevenzione ante (leggi, praeter) delictum, almeno per come le conosciamo dalla metà del XIX secolo fino a oggi, non riescono a esistere se non a scapito del diritto penale, con il quale competono slealmente e al quale, inevitabilmente, sottraggono terreno. È giunta quindi l’ora di illuminare quel cono d’ombra e interrogarci davvero sulla reale utilità di tali misure, le quali, se proprio vorranno essere mantenute sullo stesso campo da gioco del diritto penale, dovranno essere coordinate razionalmente con quest’ultimo, in funzione complementare e non vicaria o surrogatoria, come avviene invece oggi in maniera pressoché strutturale.