COMMENTO & OPINIONE

Prevenire le atrocità di massa: riflessioni alla luce della giornata internazionale sul genocidio ruandese

07 Aprile 2025



di Martina Caslini, dottoranda di ricerca presso l’Università La Sapienza di Roma

Il genocidio in Ruanda del 1994 rappresenta una delle pagine più drammatiche della storia recente, ma anche un punto di partenza per riflettere sulle atrocità di massa, spesso connesse a conflitti armati, che continuano a caratterizzare la società attuale. In poco più di cento giorni, centinaia di migliaia di tutsi, ma anche hutu moderati e ulteriori oppositori, furono brutalmente massacrati in una violenza sistematica.  

Per mantenere viva la memoria di questa tragedia, nel 2003, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite istituisce quella che oggi è conosciuta come la Giornata Internazionale di Riflessione sul Genocidio del 1994 in Ruanda contro i Tutsi (A/72/L.31). Ogni anno, il 7 aprile, questa ricorrenza ci invita a ricordare le numerose vittime e a pensare su come prevenire il ripetersi di simili violenze collettive. 

Il genocidio ruandese è stato definito “evitabile”, rappresentando un drammatico esempio di mancata prevenzione. Già nel 1993, l’ONU lancia alcuni segnali d’allarme: il Relatore Speciale sulle Esecuzioni Extragiudiziali, Sommarie o Arbitrarie, Bacre Waly Ndiaye, aveva rilevato che almeno due delle fattispecie di genocidio previste dalla Convenzione sulla Prevenzione e la Repressione del Crimine di Genocidio del 1948 potessero applicarsi alla situazione ruandese, caratterizzata da episodi di violenza intercomunitaria nei confronti dei tutsi (E/CN.4/1994/7/Add.1). Questo evidenzia come i genocidi e le atrocità di massa non siano eventi improvvisi, ma l’esito di lunghi processi di propaganda, odio e disumanizzazione. Investire nella prevenzione ricopre fondamentale importanza, sia in tempo di pace, che in tempo di guerra, in conflitti armati interni e tra Stati. Tuttavia, nonostante l’esistenza di strumenti giuridici creati per questo scopo, gravi e sistematiche violazioni di diritti umani continuano a verificarsi, mettendo in discussione il rispetto e l’efficacia del diritto internazionale.  

Questa difficoltà nella sua applicazione è in gran parte dovuta alla natura stessa di tale sistema giuridico: a differenza delle leggi nazionali, dove chi viola una norma è soggetto ad una sanzione imposta da un’autorità statale, implementare il diritto internazionale dipende in gran parte dalla volontà politica degli Stati. Tale discrezionalità solleva inevitabilmente il problema della coercibilità, una questione che non è affatto nuova. Nel 1932, come esplicato nel libro Why War?, Albert Einstein scrive a Sigmund Freud, chiedendogli se sia possibile liberare l’umanità dalla guerra, proponendo un’autorità sovranazionale con potere vincolante per risolvere i conflitti interstatali. Lo scienziato ammette, tuttavia, che, senza un adeguato potere coercitivo, tale organismo sarebbe inefficace, e conclude che la sicurezza internazionale richiederebbe la rinuncia a una parte della sovranità statale. Individua, in particolare, due ostacoli principali: da un lato, la resistenza delle classi dominanti e gli interessi economici legati alla guerra, specialmente quelli dell’industria bellica; dall’altro, il fatto che le masse, pur costituendo le principali vittime dei conflitti, vengano manipolate attraverso la scuola, la stampa e la religione.  

Nella sua risposta, Freud osserva che la creazione della Società delle Nazioni rappresenta un tentativo di istituire un’autorità centrale al fine di gestire i conflitti tra Stati. Da un lato, ne sottolinea il limite principale: la mancanza di una capacità impositiva, che compromette, inevitabilmente, la sua efficacia; dall’altro lato, riconosce che questa istituzione si fonda su principi ideali, enfatizzando che i legami emotivi tra i membri siano la vera forza coesiva di un gruppo. 

Riprendendo questo pensiero, è significativo evidenziare come, soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale, siano emersi valori universali, tra cui la proibizione del genocidio, che rappresenta una norma di jus cogens, inderogabile e valevole erga omnes, in quanto obbligo esigibile da tutti gli Stati. Tali sviluppi hanno rappresentato il fondamento di un discorso etico e giuridico innovativo, ma la loro applicazione pratica si scontra frequentemente con le dinamiche politiche e le logiche del potere. Come nota Salvatore Zappalà in Can Legality Trump Effectiveness in Today’s International Law?, persiste una continua tensione tra questi valori universali e la loro effettiva attuazione. Allo stesso modo, Antonio Cassese, in Realizing Utopia: The Future of International Law, evidenzia come, nonostante i progressi normativi, il diritto internazionale si configuri ancora come un insieme di ideali in gran parte irrealizzati. In una prospettiva sociologica, il giurista riprende la distinzione formulata da Ferdinand Tönnies tra Gesellschaft (“società”), intesa come una rete di scambi utilitaristici, e Gemeinschaft (“comunità”), fondata su legami condivisi e mutuo supporto, sottolineando come la sociabilità tra gli Stati non abbia portato alla formazione di una vera comunità internazionale e si configuri come una società di interessi. 

Nel contesto del quadro normativo internazionale, estremamente sofisticato anche se non esime da critiche e possibilità di riforma, la sfida più urgente consiste nel disincentivare in modo deciso gli Stati che, pur avendo sottoscritto trattati e convenzioni, non adempiono spontaneamente agli obblighi da essi stessi assunti; Stati che, in altre parole, non intervengono – nel loro territorio o in aree in cui esercitano una certa influenza – quando vi sia un serio rischio di genocidio, a loro conosciuto o conoscibile. 

La prevenzione del genocidio e di altre atrocità di massa richiede un impegno basato su interventi complementari che agiscono sia sul piano simbolico, che su quello strutturale. In questo contesto, una misura fondamentale è quella del riconoscimento e della commemorazione delle vittime, come affermato dalle Nazioni Unite (A/RES/58/234). La memoria storica ricopre infatti un ruolo centrale nel preservare la consapevolezza collettiva e nel rafforzare l’impegno a “non dimenticare”, di cui la ricorrenza del 7 aprile rappresenta un esempio emblematico. Un ulteriore aspetto riguarda la tutela della società civile, considerate le pressioni che la stessa può esercitare sui governi e la sua funzione di monitoraggio delle istituzioni, di difesa dei diritti umani e di promozione della giustizia. Altrettanto importante è l’investimento nell’educazione, che costituisce un elemento imprescindibile per formare una cittadinanza consapevole, in grado di influenzare le decisioni pubbliche e promuovere governi rispettosi del diritto internazionale. 

In conclusione, soltanto un’azione strutturata, sostenuta da misure concrete, come il riconoscimento delle vittime, il contrasto al negazionismo, il rafforzamento della società civile e la creazione di iniziative educative mirate, può davvero contribuire all’affermazione della dignità umana sulla violenza e sull’indifferenza, impedendo il ripetersi di tragedie come quella del genocidio ruandese. È solo così che i valori sorti dall’esperienza di un’umanità negata potranno trovare, almeno in parte, compimento.