COMMENTO & OPINIONE

L’imposizione di un’unica visione di maternità

08 Marzo 2025



di Lucrezia Rossi, assegnista di ricerca presso l’Università di Milano

L’8 marzo dovrebbe rappresentare non solo un momento di celebrazione, ma anche di riflessione. Nel percorso di superamento delle disuguaglianze e discriminazioni, iniziato quasi 80 anni fa in Italia con il riconoscimento del diritto di voto alle donne, sono stati compiuti notevoli progressi, ma resta ancora molta strada da percorrere!

L’osservazione anche solo di alcuni dei dati più recenti conferma l’attualità del tema, si pensi ai tassi di occupazione femminile che, sebbene aumentati, rimangono tra i più bassi in Europa (Tasso di occupazione femminile ancora inferiore alla media UE. Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro, CNEL & ISTAT, 2024), al numero di donne che hanno subito una molestia sul luogo di lavoro nel biennio 2022-2023 (un milione e novecentomila, v. Report sulle molestie, ISTAT, 2024) o, ancora, alla correlazione tra violenza domestica e omicidi (in Italia il 62,5% dei femminicidi avviene in ambito familiare, spesso a seguito di episodi ripetuti di maltrattamenti non denunciati o sottovalutati, v. Femminicidio in Italia, EURES, 2024).

Di fronte alla complessità della questione della violenza e della discriminazione di genere, la politica ha spesso cercato di porvi rimedio ricorrendo allo strumento del diritto penale (così anche nel recentissimo d.d.l. relativo all’introduzione del reato di femminicidio) senza considerare l’utilità e la necessità di un approccio multidisciplinare, che intervenga alle radici del problema. Tra i tanti interventi realizzati di tale natura, uno dei più recenti riguarda la regolamentazione della maternità surrogata, volta – nelle intenzioni del legislatore – a tutelare e proteggere le donne (l. 4 novembre 2024 n. 169).

In breve: la legge che disciplina la procreazione medicalmente assistita (PMA) vieta penalmente il ricorso alla maternità surrogata (art. 12 c. 6 l. 19 febbraio 2004 n. 40); fino al recente intervento del Parlamento, tuttavia, il cittadino italiano che si avvaleva di tali pratiche all’estero, laddove consentite, non era perseguibile, salvo richiesta in tal senso del Ministro di giustizia ex art. 9 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez., III, 28 ottobre 2020, n. 5198 e Cass. Sez. V, 10.3.2016, n. 13525).

La modifica poc’anzi menzionata, stabilendo espressamente che tali condotte sono sempre perseguibili secondo la legge italiana, ha ricondotto la fattispecie nell’alveo di applicazione dell’art. 7 c.p., facendo così venir meno la necessità di avere la richiesta del Ministro di giustizia.

Ebbene, tale intervento risulta problematico, anzitutto, se si confronta il reato in esame con la categoria dei reati universali: questi ultimi, infatti, si caratterizzano per la loro estrema pericolosità sociale e per la gravità delle condotte punite (a titolo esemplificativo vi rientrano i reati di terrorismo, tratta di persone, traffico di organi umani…). Di conseguenza, l’equiparazione del reato di maternità surrogata a tali fattispecie – anche se solo ai fini della perseguibilità dei fatti commessi all’estero dal cittadino italiano – solleva dubbi in punto di ragionevolezza dell’intervento.

Ma non solo; dubbi emergono anche sulla ratio dell’intervento (e del divieto in generale), ossia tutelare la dignità della donna ed evitare la mercificazione del corpo femminile. Gli stessi valori già in passato erano stati utilizzati dalla giurisprudenza di legittimità per negare la trascrizione degli atti di nascita formati all’estero di bambini nati da maternità surrogata, evidenziando come tale pratica «quali che siano le modalità della condotta e gli scopi perseguiti, offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane» (Cass. civ., S.U. n. 38162 del 30.12.2022).

Questa impostazione tutela la donna in modo paternalistico, considerandola più un oggetto da proteggere che un soggetto capace di autodeterminarsi. Non si riconosce, infatti, che questa pratica potrebbe, in alcuni casi, rappresentare una scelta libera e consapevole, e non necessariamente una forma di sfruttamento.

Eppure, esistono già pratiche mediche consentite che hanno un impatto persino maggiore sull’integrità fisica delle persone, come avviene nel caso delle donazioni di organi da vivente; in questi casi il rischio di sfruttamento e di mercificazione del corpo umano viene contenuto attraverso una regolamentazione puntuale che mira a proteggere i donatari da indebite pressioni, richiedendo un consenso libero, informato, attuale e tutelando l’anonimato del donante. Un approccio simile potrebbe essere utilizzato anche per regolamentare la maternità surrogata, pur con i necessari adattamenti, considerando che questa pratica coinvolge anche il nato e che, pertanto, una regolamentazione efficace dovrebbe considerare anche questo aspetto, garantendo una tutela equilibrata sia della gestante sia del minore.

L’intervento realizzato, allora, pur presentandosi come una misura a difesa delle donne, sembra piuttosto voler imporre un’unica visione etica e sociale sulla maternità. In questo modo rafforza stereotipi antiquati e nega la pluralità delle esperienze femminili: il divieto assoluto, infatti, penalizza indistintamente tutte le donne, impedendo loro di prendere decisioni autonome sui propri corpi e, al contempo, non affronta le cause strutturali che rendono alcune di esse realmente vulnerabili. Inoltre, la modifica risulta particolarmente afflittiva nei confronti di un certo tipo di nucleo familiare, ossia le coppie omosessuali maschili, le uniche che in concreto non possono ricorrere alla PMA senza avvalersi della maternità surrogata, e a cui resta esclusivamente l’istituto dell’adozione per soddisfare la loro genitorialità intenzionale.

Ecco perché l’estensione della perseguibilità della maternità surrogata appare come un diversivo che permette alla politica di assumere una posizione morale forte, senza però affrontare le difficoltà strutturali che colpiscono le donne nella quotidianità.

Se l’obiettivo fosse realmente quello di garantire che nessuna donna sia costretta a ricorrere alla surrogazione per necessità economica, bisognerebbe prima agire su altri aspetti, come il miglioramento delle condizioni economiche e lavorative delle donne, per garantire loro un’indipendenza reale e una piena possibilità di scelta; o ancora, l’adozione di politiche familiari più inclusive, che tengano conto delle nuove forme di genitorialità e non discriminino chi non può avere figli in modo naturale; se davvero si volesse difendere la dignità delle donne, bisognerebbe partire dall’ascolto delle loro esigenze e dall’introduzione di misure concrete per favorire indipendenza e autodeterminazione, anziché imporre divieti che ignorano la complessità delle loro vite.

Una politica femminista autentica non si basa su proibizioni dall’alto, ma su strumenti concreti per garantire libertà, autonomia e pari opportunità. E allora, la maternità surrogata, così come disciplinata dalla legge 40/2004 e rafforzata dall’ultimo intervento legislativo, rischia di essere soltanto l’ennesima imposizione di un modello di donna che non riconosce la pluralità delle esperienze femminili e il diritto all’autodeterminazione.